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Precari in uno stato di 'sfruttamento'- La denuncia di una lavoratrice ASU siciliana

Vorrebbero la stabilizzazione. Le norme ci sono, ma non vengono applicate. 'Fa comodo sia ai politici che ai sindacati'. E loro perdono tutti i diritti. E anche la libertà

In uno stato di bisogno viene a mancare anche la libertà: un principio che non dovrebbe mai esser messo in discussione.

Invece, purtroppo, non è così. Ne sono il palese esempio il lavoratori precari, tutti coloro che non possono avere prospettive economiche al di là di qualche mese (nei migliori dei casi).

Cosa vorrebbero? Una stabilizzazione. Una garanzia lavorativa che permetta di migliorare la loro condizione di vita. Quella che attualmente non è altro se non un’esistenza continuamente appesa a un filo.
Un filo che li fa sentire come burattini, “pupazzi” da muovere a piacimento che, ovviamente fanno comodo.
Ed è proprio per questo che probabilmente non si vuole trovare una soluzione, nonostante, non manchino i mezzi. Come segnalato a ‘Il Giornale d’Italia’ da una lettrice, una lavoratrice socialmente utile (Lsu) per giunta in cooperativa, pur essendo dal principio in servizio in una Asp (Assistenza Sanitaria Provinciale) in Sicilia. “Le norme ci sono, basterebbe applicarle invece vengono sistematicamente disapplicate” spiega la donna, che preferisce mantenere l’anonimato, puntando il dito contro la legge di stabilità colpevole di continuare a giustificare gli sprechi per ridurre gli investimenti.
In realtà, come sottolinea, la stabilizzazione non costerebbe nulla. “Basterebbe investire lo stesso denaro – afferma – e avremmo un contratto a tempo indeterminato, invece di esser costretti a continue proroghe lavorando privi di contratto per tre, quattro o dieci mesi”.
Il motivo per cui ciò non avviene è semplice: il meccanismo fa comodo. “Serviamo a tenere in piedi i novanta deputati regionali – spiega – quando ho bisogno di continuare a lavorare a chi mi devo rivolgere? Ovviamente alla segreteria politica di turno”.
Un sistema malato che vede coinvolti anche i sindacati. “Gli stessi sindacati – puntualizza – non sono altre che espressione di una politica che continua a marciare sulla nostra pelle. Noi purtroppo non siamo altro se non la bassa manovalanza di una classe dirigenziale che pensa solo ai fatti propri. Possono contare sul nostro consenso perché abbiamo un bisogno primario: quello del lavoro. Ci tengono al guinzaglio e lo fanno perché gli facciamo comodo non solo per i nostri voti ma anche perché è proprio grazie a noi che si possono avanzare richieste di fondi”.
Un vero e proprio ricatto insomma. Che si rinnova ad ogni campagna elettorale, fa intendere la testimonianza. Anche perché il rischio tagli è sempre dietro l’angolo. Di 1,4 miliardi di euro nella Finanziaria nazionale destinati alla Sicilia, sono arrivati (anzi, per essere precisi devono ancora arrivare) 900 milioni. Il resto? Si vedrà. Intanto pero il Governo Crocetta ha già previsto in bilancio il cosiddetto “accantonamento negativo”. Ovvero se quei soldi non dovessero essere riconosciuti, ha già individuato dove “tagliare” e si tratta proprio di precari, forestali e Pip.
Senza i fondi, ovviamente, loro non verranno neppure pagati, situazione, tra l’altro, che hanno vissuto e continuano a vivere. “Da tre mesi non percepiamo lo stipendio – spiega ancora la lettrice – e, si tenga conto, tra l’altro, che si tratta di un sussidio di cinquecento euro”.
Una situazione che coinvolge moltissimi lavoratori, solamente in Sicilia. “Si tratta di 24mila persone – continua – spalmati su tutti i servizi pubblici, dai consolati, alla sanità, alla camera di commercio fino al genio civile. A cui si aggiungono poi circa ottomila forestali”.
In tutto questo, spiega ancora la donna, però i servizi non soffrono anche perché loro sono sempre al lavoro, anche se non pagati, anche se trattati come merce di scambio in attesa di una stabilizzazione che sembra non arrivi mai. “È da vent’anni che reggiamo la Regione venendo sfruttati – afferma – non abbiamo contributi previdenziali e non veniamo neppure pagati. La verità è che siamo una risorsa e non siamo mai stati tutelati”.
C’è poi un altro punto. “Siamo doppi lavoratori – spiega ancora – pur essendo in servizio in un ente pubblico risultiamo lavoratrici di cooperative”.
La richiesta dunque è semplice. “Vogliamo venga applicata la normativa senza nascondersi dietro il patto di stabilità”.
Anche perché, sottolinea la donna, questo non è vivere. “Ma quante siamo le siciliane precarie? L’80%, donne costrette a rinunciare a una vita. Cerchiamo una realizzazione professionale che non arriva e facendolo non possiamo mettere in piedi una famiglia”.
E proprio qui la questione diventa anche morale. “Certe hanno dovuto rinunciare perfino ad una convivenza, per non parlare di un matrimonio”. C’è addirittura chi non potendo dare garanzie ad un figlio “pensa ad un aborto”.
Nell’Italia del ventunesimo secolo sembra vengano meno continuamente i diritti. Una repubblica fondata sul lavoro, come cita il primo articolo della costituzione, incapace di tutelare proprio quello che dovrebbe essere la fonte di reddito di cittadini che non chiedono la luna: vogliono solamente vivere decentemente.
Al momento invece non c’è neppure la libertà di dire ciò che si pensa, conclude amaramente la nostra lettrice che, proprio per questo, ha preferito rimanere anonima. “In uno stato di bisogno non mi sento libera, le conseguenze le potete immaginare”.
Il rischio è di essere penalizzata? “Molto di più”.

 

Cosa vorrebbero? Una stabilizzazione. Una garanzia lavorativa che permetta di migliorare la loro condizione di vita. Quella che attualmente non è altro se non un’esistenza continuamente appesa a un filo.

Un filo che li fa sentire come burattini, “pupazzi” da muovere a piacimento, che fanno comodo. Ed è proprio per questo che probabilmente non si vuole trovare una soluzione, nonostante non manchino i mezzi.

Come segnalato a ‘Il Giornale d’Italia’ da una lettrice, una lavoratrice socialmente utile (Lsu) per giunta in cooperativa, pur essendo dal principio in servizio in una Asp (Assistenza Sanitaria Provinciale) in Sicilia. “Le norme ci sono, basterebbe applicarle invece vengono sistematicamente disapplicate” spiega la donna, che preferisce mantenere l’anonimato, puntando il dito contro la legge di stabilità colpevole di continuare a giustificare gli sprechi per ridurre gli investimenti.

In realtà, come sottolinea, la stabilizzazione non costerebbe nulla. “Basterebbe investire lo stesso denaro – afferma – e avremmo un contratto a tempo indeterminato, invece di esser costretti a continue proroghe lavorando privi di contratto per tre, quattro o dieci mesi”.

Il motivo per cui ciò non avviene è semplice: il meccanismo fa comodo. “Serviamo a tenere in piedi i novanta deputati regionali – spiega – quando ho bisogno di continuare a lavorare a chi mi devo rivolgere? Ovviamente alla segreteria politica di turno”.

Un sistema malato che vede coinvolti anche i sindacati. “Gli stessi sindacati – puntualizza – non sono altro che espressione di una politica che continua a marciare sulla nostra pelle. Noi purtroppo non siamo altro se non la bassa manovalanza di una classe dirigenziale che pensa solo ai fatti propri. Possono contare sul nostro consenso perché abbiamo un bisogno primario: quello del lavoro. Ci tengono al guinzaglio e lo fanno perché gli facciamo comodo non solo per i nostri voti ma anche perché è proprio grazie a noi che si possono avanzare richieste di fondi”.

Un vero e proprio ricatto insomma. Che si rinnova ad ogni campagna elettorale, fa intendere la testimonianza. Anche perché il rischio tagli è sempre dietro l’angolo. Di 1,4 miliardi di euro nella Finanziaria nazionale destinati alla Sicilia, sono arrivati (anzi, per essere precisi devono ancora arrivare) 900 milioni. Il resto? Si vedrà. Intanto pero il Governo Crocetta ha già previsto in bilancio il cosiddetto “accantonamento negativo”. Ovvero se quei soldi non dovessero essere riconosciuti, ha già individuato dove “tagliare” e si tratta proprio di precari, forestali e Pip.

Senza i fondi, ovviamente, loro non verranno neppure pagati, situazione, tra l’altro, che hanno vissuto e continuano a vivere. “Da tre mesi non percepiamo lo stipendio – spiega ancora la lettrice – e, si tenga conto, tra l’altro, che si tratta di un sussidio di cinquecento euro”. Una situazione che coinvolge moltissimi lavoratori, solamente in Sicilia. “Si tratta di 24mila persone – continua – spalmati su tutti i servizi pubblici, dai consolati, alla sanità, alla camera di commercio fino al genio civile. A cui si aggiungono poi circa ottomila forestali”.

In tutto questo, spiega ancora la donna, però i servizi non soffrono anche perché loro sono sempre al lavoro, anche se non pagati, anche se trattati come merce di scambio in attesa di una stabilizzazione che sembra non arrivi mai. “È da vent’anni che reggiamo la Regione venendo sfruttati – afferma – non abbiamo contributi previdenziali e non veniamo neppure pagati. La verità è che siamo una risorsa e non siamo mai stati tutelati”.

C’è poi un altro punto. “Siamo doppi lavoratori – spiega ancora – pur essendo in servizio in un ente pubblico risultiamo lavoratrici di cooperative”.

La richiesta dunque è semplice. “Vogliamo venga applicata la normativa senza nascondersi dietro il patto di stabilità”.

Anche perché, sottolinea la donna, questo non è vivere. “Ma quante siamo le siciliane precarie? L’80%, donne costrette a rinunciare a una vita. Cerchiamo una realizzazione professionale che non arriva e facendolo non possiamo mettere in piedi una famiglia”. E proprio qui la questione diventa anche morale. “Certe hanno dovuto rinunciare perfino ad una convivenza, per non parlare di un matrimonio”. C’è addirittura chi non potendo dare garanzie ad un figlio “pensa ad un aborto”.

Nell’Italia del ventunesimo secolo sembra vengano meno continuamente i diritti. Una repubblica fondata sul lavoro, come cita il primo articolo della costituzione, incapace di tutelare proprio quello che dovrebbe essere la fonte di reddito di cittadini che non chiedono la luna: vogliono solamente vivere decentemente. Al momento invece non c’è neppure la libertà di dire ciò che si pensa, conclude amaramente la nostra lettrice che, proprio per questo, ha preferito rimanere anonima. “In uno stato di bisogno non mi sento libera, le conseguenze le potete immaginare”.

Il rischio è di essere penalizzata? “Molto di più”.

Fonte: ilgiornaleditalia.org

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